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La forma è sostanza

Un racconto di Stefano Casella estratto dalla raccolta "Racconti di caccia e di vita - Tributo a Romano Pesenti e Renato Musumeci"

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Il fuoco scoppiettando divampava nel camino… io sdraiato sul pavimento di assi di legno della baita con la schiena appoggiata al mio zaino lo osservavo come ipnotizzato, i miei abiti di loden leggermente umidi iniziavano a fumare… mi sentivo felice, ero maledettamente sicuro di non esser mai stato tanto soddisfatto di me stesso come in quel momento… ero stremato… aprii lo zaino e presi la fiasca della grappa, svitai il tappo e ne bevvi avidamente un sorso… il sapore era forte e genuino tipico delle grappe contadine… ebbi il desiderio di mischiarlo ad un morso di cioccolato forte fondente… lo trovai sul fondo dello zaino… fantasticavo e ripensavo ai due giorni di caccia appena vissuti, o meglio, che stavo ancora vivendo, con lo scopo di analizzare ogni attimo, ogni minuto ed imprimerlo nella memoria e di non dimenticarlo mai…

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Passati gli anni, ripensandoci, sono sicuro di non poterli dimenticare, ogni momento è ben fissato nella mia mente, se rievocato mi appare chiaro e limpido come se lo avessi vissuto poco fa. Sono ricordi per me epici ed indimenticabili per la loro unicità, e penso che saranno tali fino alla fine del mio cammino. 

Inutile nasconderlo, sono un cacciatore di pianura, nato e cresciuto tra le plaghe del Pavese, gli ungulati per me e per molti di noi, erano una sorta di entità astratte a cui solo pochi fortunati potevano ambire, in primis per i costi proibitivi per noi gente di paese, poi per la scarsa conoscenza degli stessi. Cinghiale a parte chi aveva mai visto altro nelle nostre campagne? Per questo non ci si pensava minimamente, ne si avevano ambizioni in merito. Il destino però, pare, sia molto volubile e non avaro di scherzi.

Io e Giulio, lo scavezzacollo che avevo il piacere di aver per compagno di caccia, venimmo a trovarci un bel dí, nell’armeria del paese, luogo dove tutte le menti venatorie più speculative del circondario si davano appuntamento la sera dopo il lavoro per raccontare dei successi propri avuti a caccia e soprattutto delle padelle altrui. Quella sera di Venerdì, tra i mille chiacchieroni presenti intenti a far perder tempo alla nostra commessa, non che moglie del nostro armaiolo, comparve il “Dottore”. Il Dottore era il medico condotto del paese, all’epoca dei fatti narrati era ormai più vicino ai “settanta” che ai “sessanta”, estremamente erudito, era un uomo tutto d’un pezzo, integerrimo, in possesso di una fibra morale salda e indistruttibile. Sicuramente uomo di altri tempi, colpiva per la sua eccezionale educazione e per la dialettica che adattava ai contesti in cui veniva a trovarsi di volta in volta nell’ esercizio delle sue funzioni, e soprattutto ai suoi interlocutori. Col fattore della “Pallavicina” lo sentivi dialogare in perfetto dialetto pavese, quasi fossero usciti dalla stalla pochi minuti prima, per poi ascoltare il suo gergo forbito nel confrontarsi di politica e attualità col notaio Rossi e l’avvocato Castrani, seduti ad un tavolino sotto il portico del circolo Acli. Usava indossare abitualmente per lavoro un abito grigio medio a doppio petto con camicia bianca e cravatta nera che lo rendevano molto formale e professionale, col freddo aggiungeva sempre un cappotto lungo e scuro di loden. Quando usciva dall’ambulatorio per le visite domiciliari indossava un cappello e per le mani la sua immancabile borsa di pelle contenente lo stetoscopio ed altri presidi medici a lui necessari.

Da ragazzini si ha spesso la lingua lunga, e non si ha criterio, tant’è che quando venne a visitarmi che avevo preso gli orecchioni mi permisi di fargli una domanda in apparenza inopportuna: “Sior Dottore perché lei è sempre con la muta in dosso?” 
Mia madre paonazza senza proferir parola mi lanciò un occhiataccia che a tempo debito garantiva tempesta e burrasca e mise l’indice alle labbra imponendomi il silenzio, lui sorridente rispose: “Ragazzo mio ricorda sempre che la Forma è sostanza” e mentre mi regalava questa perla si giro’ di spalle per riporre gli strumenti nella sua borsa. Fu in quel preciso momento che mia madre col suo tipico man rovescio mi colpi le labbra senza farsi notare dal dottore, sentii la fede matrimoniale batterie sulle mie labbra e il peso dello sguardo omicida pesare sul mio collo.

Questo suo mantra, mi fu poi raccontato più avanti negli anni, nasceva tra le file del reggimento alpini Cadore, dove fu assegnato come ufficiale medico durante la campagna di Grecia e quelle a seguire. Tra quelle fila oltre al resto, nacque in lui anche un amore incondizionato verso la vita di montagna ed essendo cacciatore il risultato di tale equazione fu scontato. Non a caso i nostri “vecchi” dicevano di lui che fosse un gran cacciatore di montagna

Quel venerdì di primavera, si palesò in armeria sul far della sera, quando comparve sull’uscio della bottega i vari ciceroni che tenevano botta senza mollare il colpo si zittirono, sapevano benissimo che potevano prendere in giro noi ragazzotti con le loro fantasticherie, ma non il Dottore, conoscendolo avrebbe sottolineato, rivolto verso le loro illazioni, che “trattavasi con sicurezza di falsi ideologici” termine legale ed elegante per definire una “spudoratissima balla”. Fino a quel giorno non mi era mai capitato di vedergli indossare le vesti da caccia, ero abituato a vederlo con la “muta” professionale, notandomi mi salutò. Stranamente non riuscivo a smettere di guardare quella figura elegante e raffinata persino con l’abito da caccia. Indossava dei pantaloni di lana verde oliva ben confezionati sicuramente in sartoria, scarpe da montagna marroni in pelle, una camicia di flanella bianca con dei quadratini marrone chiaro, una cravatta regimental sul verde, un gilet di lana della tinta dei pantaloni con taschino porta orologio ed il suo cappello d’alpino con il fregio cucito sopra cui spiccava un bellissimo “7” e l’immancabile penna nera.

Mentre aspettava con pazienza il suo turno, si accorse che continuavo a fissarlo, attese qualche minuto poi divertito mi disse: “Noto che sei compiaciuto da questo mio completo da campo”.  
Io risposi: “Sì Sior Dottore, trovo che le stia meglio che il vestito con cui sono abituato a vederla”.
Sorridendo mi rispose: “Ricordati che la Forma è Sostanza!”  

Giunse il suo turno, chiese alla commessa 4 scatole di cartucce 7×64, che avrebbe usato per la caccia al camoscio in alta montagna. La commessa scomparve nel retrobottega per ricomparire poco dopo con le scatole di munizioni richieste, ma mentre si apprestava a tornare dietro il bancone ebbe un dubbio e chiese al dottore: “Ritira oggi la sua carabina?”  
Ed egli rispose: “Ma si! Se è già pronta faccia una strada sola”. 

Riscomparse nel retrobottega e ne uscì con cartucce e una valigia porta carabina. Il dottore volle vederla. La commessa aprì la valigia… allungai l’occhio e vidi posata sopra il velluto amaranto una vera opera d’arte armiera fino a quel momento a me sconosciuta. Non ci misi tanto a comprendere che si trattasse di un arma “fine”, mi bastò solo guardare le sue forme e la bellezza delle sue incisioni per comprendere che mi trovavo davanti qualcosa che sicuramente non potevo permettermi né tanto meno desiderare, convinto di non poter nemmeno comprendere a pieno il valore di quello che ipoteticamente avrei potuto avere tra le mani. Si trattava di una carabina J. FanzoJ stutzen abbinata ad un cannocchiale nuovo di Swarovski appena montato. Erano i primi anni 90 e chi praticava la caccia di selezione stava sostituendo le ottiche ad ingrandimenti fissi da sempre utilizzate con quelle ad ingrandimenti variabili. Uno dei pochi presenti nella bottega che aveva esperienza in materia di ungulati ebbe da chiedere come mai quel cambio. Il dottore spiegò di essere stato costretto a sostituire la sua vecchia Swarovski 6×42 con una più moderna 3-12×56, a causa della sua vista che andava peggiorando con l’età, ma soprattutto per avere un tubo e una campana più larga in modo che potesse godere di più luminosità al sorgere del sole e durante il tramonto.

Io totalmente sprovvisto di quelle nozioni ascoltavo tutto con molto interesse, non capitava spesso di sentire qualcuno trattare quegli argomenti, soprattutto con la preparazione del Dottore frutto si di studi, ma anche di tanta esperienza sul campo. Sentii parole strane come yearling, classe tre, femmina sottile, angolo di sito, balistica terminale… rimasi basito! Potevo essere così ignorante in materia? D’impeto mi scappò la fatidica domanda: “Dove posso studiare queste materie?” 

Di risposta la commessa sorridendo mi porse un opuscolo in cui veniva spiegato dove e come poter frequentare un corso per ottenere l’abilitazione al prelievo venatorio in selezione. Non volli subito leggere quello che c’era scritto sull’opuscolo perché non avrei compreso nulla, ero troppo concentrato nel seguire ciò che stava raccontando il dottore per distrarmi. In quel momento ero completamente rapito dalle descrizioni dei luoghi dove lui cacciava, in cui parlava delle montagne come se fossero su un altro pianeta, delle piante, dei fiori e delle rocce che costruivano il panorama, degli animali che ci vivevano delle usanze fatte proprie, appannaggio fino ad allora esclusivo delle genti di montagna, delle regole da seguire per la sicurezza del cacciatore, del tiro e via dicendo… e mentre continuava a parlare la sua voce si affievoliva pian piano e andava scomparendo man mano che iniziavo a vedere nella mia testa quei posti, quelle montagne, quegli animali, e sentivo crescere il desiderio di andarci a caccia.

Giulio che aveva per fortuna taciuto fino a quel momento mi chiese: “Ma fai per davvero?”
Io risposi: “Sì, mi interessa parecchio questa cosa”.
Lui: “Ma dai come stai? Come sei messo? C’è da studiare ed io non ho voglia!”
Lo fissai negli occhi e lapidario gli risposi: ”Nessuno ti obbliga a fare niente se non ti interessa, a me interessa e mi metto in ballo, con te o senza di te lo faccio comunque per cui non crearti paranoie inutili”.
La notte stetti desto nel pensare a ciò che avrei potuto fare una volta abilitato alla selezione… stavo sognando ad occhi aperti e più ci pensavo più l’entusiasmo cresceva ma, nonostante il mio stato d’animo, piano piano riuscii a chiudere gli occhi.

Passarono due mesi da quel venerdì, mentre uscivo dal circolo Acli incontrai il Dottore: “Dottore buon giorno! Dopo che ho sentito i suoi racconti quella volta in armeria mi son dato da fare e lunedì passato mi son guadagnato l’attestato da cacciatore di selezione!
Il dottore rispose: “Son contento! Vedrai che ti si apriranno davanti nuovi mondi” e salutandomi entrò nel circolino. 

La neve stava scendendo piano piano ed il vento, seppur debole fischiava tra le cime degli alberi che si trovavano dietro la baita. Riposi la fiasca della grappa ed il cioccolato nello zaino e mi alzai da terra. La nevicata mi aveva sorpreso mentre ancora stavo eviscerando la carcassa della femmina che avevo in assegnazione. Guardando l’ora e le condizioni climatiche valutai che non sarei riuscito ad arrivare al posto di sosta e controllo prima del sopraggiungere del buio. A meno di due chilometri dal posto in cui mi trovavo c’era una vecchia malga con baita in disuso durante la stagione fredda, pensai di riuscire ad arrivarci prima che il tempo peggiorasse ed il buio giungesse. Una volta caricata la carcassa nello zaino mi premurai di avvisare il centro di controllo e sosta per avere direttive in merito. Per fortuna mi trovavo su un costone piuttosto in alto che facilitava le comunicazioni telefoniche per cui non ebbi nessun problema nel contattare il centro di sosta e controllo. Durante la lunga telefonata concordai con il tecnico faunistico ed il carabiniere forestale di rimanere in malga fino al mattino successivo onde scongiurare ogni sorta di incidente. Per fortuna nel mio zaino trovavano sempre posto una vecchia coperta militare di pura lana vergine, cibo e diversi generi di conforto, dunque non c’era nessuna sorta di problema nel pernottare in quel posto. Avvisai anche mia moglie, nel raccontarle ció che avevo appena vissuto lasciai trapelare gioia ed entusiasmo, sensazioni positive che servirono a tranquillizzarla pur sapendomi al sicuro dentro la baita.

La mattina del giorno prima ero partito ancora a buio alla ricerca di una femmina matura e asciutta di camoscio. Era la mia seconda assegnazione ed era l’inizio di Dicembre, mancavano pochissimi giorni alla chiusura della stagione del camoscio e volevo farlo a tutti i costi. Era la prima volta che mi venivano assegnati due capi da prelevare e non volevo mancare di concludere il mio piano di abbattimenti. Ero stato fortunato col primo capo, uno yearling, fatto subito in apertura di stagione, poi più nulla. Appena dopo il mezzo dì, con il binocolo individuai su un costone un branco di femmine e giovani che pascolava beatamente sulle rocce, mi sistemai all’ombra di un ginepro ed estrassi il  “lungo” per cercare il mio camoscio, col binocolo 8×42 che avevo appeso al collo non riuscivo a distinguerli con precisione. Osservai per circa 1 ora ed individuai ben tre soggetti che potevano rientrare nei parametri di assegnazione.  Purtroppo la conformazione orografica di quella valle non giocava a mio favore, tentare un avvicinamento senza possibilità di copertura non era il caso, in alternativa potevo compiere un lungo percorso coperto da vegetazione e rocce per aggirare gli animali e optai per quello. Si trattava di un percorso di circa 3 chilometri a mezza costa per poi salire di quota nel tratto finale e a Dio piacendo poter avere una buona possibilità di tiro. Guardai sulla carta igm che mi portavo sempre dietro il percorso più idoneo da prendere nonostante avessi il gps Garmin a disposizione, non per mancanza di fiducia nello stesso ma per risparmiare la batteria che avrebbe sicuramente fatto più comodo durante una situazione critica o di emergenza. Adottavo spesso questo sistema imparato sotto le armi, mi permetteva di avere uno strumento utile e già programmato per tirarmi fuori da situazioni poco piacevoli in cui generalmente si ha scarsa lucidità mentale e le capacità cognitive per gestire la cartografia non sono idonee. Camminai osservando il paesaggio per circa due ore godendolo fino a che non giunsi dove volevo. Una volta giunto in quota sulla cresta afferrai il binocolo che portavo al collo iniziai a cercare il branco. Con mio rammarico notai che anche gli animali si erano spostati anche se non di molto, da dove li avevo lasciati, tenendo una certa distanza da me nonostante mi fossi spostato. Decisi comunque di osservarli da questa posizione più vicina con il lungo per cercare i tre soggetti di mio interesse e venni a scoprire che una era una femmina con capretto, un secondo era un giovane maschio che da quella nuova posizione si riusciva a distinguerlo per il ciuffo pubico. Un solo soggetto aveva le caratteristiche che lo identificavano come possibile candidato al prelievo. Considerata l’ora ormai tarda per fare altro che non fosse rientrare a casa,  decisi di scendere al posto di controllo dove avevo lasciato il mio veicolo con l’intento di tornare in quel posto l’indomani mattina di buon ora. 

Detto fatto il mattino mi trovai su quel costone sperando di ritrovare il branco visto il giorno prima. Camminai per circa tre ore, vigile con circospezione. Il meteo dava neve in tardo pomeriggio, per cui il tempo a mia disposizione non era lo stesso del giorno prima, per di più il cielo rannuvolandosi rabbuiava in anticipo. La fortuna mi venne in contro. Individuai un branchetto di sei o sette soggetti adulti che stava scendendo pian piano di quota in vista, credo, del maltempo della sera. Non era il branco che avevo individuato il giorno prima, non avevano capretti al seguito per cui mi facilitavano l’identificazione. Li osservai quindi con cura e individuai una femmina adulta che faceva al caso mio. Per fortuna c’era un bosco di larici e abeti che mi copriva l’avvicinamento fino ai piedi della parete. Dal limitare del bosco all’inizio del costone c’erano circa duecento metri di prato poi l’inizio di una cengia che portava in cima ad un grosso sperone dove speravo si fermassero gli animali in cerca di riparo. Lo sperone si ergeva per una decina di metri ed era quasi tutto visibile dal limitare del bosco. Pregando la buona sorte mi mossi in direzione di un altura che mi avrebbe permesso una linea di tiro leggermente rialzata. Per tutto il tragitto che durò per circa un ora tenni sotto controllo gli animali sperando di vederli scendere fino a dove volevo trovarli. Giunsi prima dei camosci. Mi piazzai all’ombra di un abete cercando di passare inosservato, bevvi un sorso d’acqua dalla borraccia, masticai un pezzo di carne secca e posizionai lo zaino in modo che potesse farmi da appoggio. Mi sdraiai comodo in attesa di vedere spuntare gli animali. Non ero sicuro che sarebbero giunti fin lì ma ci speravo. Ne approfittai per prendere alcuni punti di riferimento per il tiro con il telemetro. Dalla mia posizione alla cima dello sperone c’erano duecentocinquantasette metri circa per cui dopo un breve calcolo con carta e penna apportai la modifica alla taratura della mia ottica e caricai il serbatoio della carabina. Una delle cose che il “Dottore“ ebbe modo di insegnarmi dopo che mi brevettai fu appunto quello di camminare sui monti con il fucile nell’apposita sacca dello zaino scarico. Secondo la sua esperienza un tipo di caccia del genere di rado se non mai avrebbe potuto necessitare un tiro improvviso per cui l’arma doveva per forza di cose essere caricata prima e portata in mano durante il tragitto. Per cui mi limitai ad applicare questo buon consiglio sin dalle prime esperienze in merito e non ebbi mai modo di dubitarne la validità. Passò del tempo, ormai si era fatto pomeriggio pieno e dei camosci neanche l’ombra. Seduto sotto la pianta stavo quasi decidendo di abbandonare quando notai del movimento sullo sperone. Presi velocemente il binocolo e li vidi scendere pian piano proprio dove volevo io. Senza fare movimenti bruschi mi sdraiai in posizione di tiro mettendomi il più comodo possibile, cercai di tenere a freno le forti emozioni aiutandomi attraverso concentrazione e respirazione, un colpo di fortuna così non capitava tutti i giorni… ci riuscii. Guardai dentro l’ottica cercando gli animali, trovandoli subito individuai il potenziale soggetto di mio interesse. Mi dava le spalle e per mia fortuna urinó dopo qualche minuto che la stavo osservando, confermandomi di essere la femmina adulta che cercavo. Lasciai passare ancora una decina di minuti per essere sicuro che non ci fossero capretti al seguito. Non comparvero. Era giunto il momento di prelevare il mio camoscio. Aspettai forse due minuti sono a quando si girò a “cartolina” per brucare l’erbetta fresca. Puntai il cuore, trattenni il fiato, sparai. L’animale crollò sul posto. Gli altri si dettero alla fuga. Ricaricai velocemente l’arma e continuai a tenerlo d’occhio attraverso l’ottica caso mai la ferita non fosse stata sufficientemente letale. Non successe nulla. Mi alzai, scaricata l’arma e riposta nella sacca infilai sulle spalle lo zaino e mi avviai al recupero della carcassa. Giunsi sull’anschuss, guardai l’animale soddisfatto, lo ricomposi sul suo lato destro e strappai un rametto di pino mugo e lo utilizzai come “bruch”, lo misi in bocca alla camoscio come ultimo pasto, ne strappai un secondo e lo intinsi nel sangue dell’animale per poi metterlo sul cappello nel lato sinistro. Inginocchiandomi pregai per quell’ animale. Il tiro era stato perfetto l’animale non aveva sofferto, quindi con molta soddisfazione realizzai di aver effettuato un prelievo etico. Mentre evisceravo la carcassa iniziò a nevicare. 

Il fuoco scoppiettando nel camino diffondeva per la stanza un piacevole tepore. Sul tavolo c’erano due  biove di pane più mezzo pane di segale, mezza forma di formaggio, due cacciatori di cavallo, e un pezzo di motzetta valdostana che in poche parole era carne secca fatta con la coscia del camoscio.  Acqua dalla borraccia, una fiasca di vino rosso corposo, una di grappa barricata e dulcis in fundo un pezzo di cioccolato forte fondente. Non avendo la caffettiera mi accontentai di scaldare un po’ di acqua nella gavetta e di scioglierci dentro del caffè liofilizzato. In poche parole un pasto da Re. Cenai ripensando al tempo in cui cacciava il Dottore, un tempo in cui si cacciava soprattutto per la tavola, dove non c’era la tecnologia attuale ad aiutare l’uomo, telefoni cellulari, localizzatori satellitari in caso di valanga utili anche in caso di incidente, navigatori satellitari, bussole elettroniche e quant’altro non esistevano in aiuto al cacciatore, era un tempo in cui uscire solo per i monti significava rischiare la pelle. Tutto era molto più difficile ma credo molto più genuino e romantico di oggi. 

Dopo mangiato restai sdraiato sul giaciglio fatto di assi di legno e paglia ad osservare il fuoco ascoltando il rumore della neve che cadeva e del vento che fischiava debole tra le cime dei larici e degli abeti fino a quando, esausto ma felice, mi addormentai. Il mattino seguente scesi di buon passo in direzione del centro di sosta e controllo. Fui accolto dal tecnico faunistico che mi offrì un buon caffè. Mentre chiacchieravamo sul mio prelievo, giunsero alcuni turisti stranieri in visita al paese. Uno di questi si avvicinò dopo avermi guardato insistentemente per alcuni minuti, stava parlando con la moglie del mio abbigliamento tipico da cacciatore di montagna interamente confezionato in loden ed il bruch (rametto) sul cappello lato sinistro. Si avvicino e sorridendo mi disse: “Weidmannsheil!”
Io risposi sorridendo a mia volta: “Weidmannsdanke”
Il tecnico faunistico mi guardò sorpreso e mi disse: “Non capita spesso di trovare una persona così gentile ed educata, si vede che non è italiano, ti ha guardato e ti ha riconosciuto quasi subito!
Fissai divertito il mio anfitrione, mi tornò subito alla mente il mio Dottore di trent’anni prima e prontamente esclamai: “Inutile negarlo la forma è sostanza!”  

Dedicato a mia madre ovunque ella si trovi,
e al ricordo del Dottor E. V.  che mi ha aperto gli occhi sulla caccia.

Questo racconto è estratto dalla raccolta Racconti di caccia e di vita – Tributo a Romano Pesenti e Renato Musumeci“.

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