Quali fattori influenzano l’efficacia della braccata?
Uno studio spagnolo di recente pubblicazione ha indagato la questione identificando nel numero di poste e nelle dimensioni dei branchi i fattori chiave.
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Il cinghiale, come ormai sappiamo, è un ungulato che ha avuto fortune alterne ma che attualmente ha incrementato notevolmente i suoi contingenti in tutto l’areale di distribuzione a seguito delle mutate condizioni ambientali e grazie alle sue elevata capacità riproduttiva e formidabile adattabilità. Questo ha inevitabilmente acuito, in primis, il conflitto con le attività antropiche; i danni da cinghiale sono sempre più frequenti ed interessano le colture destando crescenti preoccupazioni, anche per gli allevamenti, in quanto il suide può fungere da serbatoio per diversi patogeni (non ultimo la PSA). I cinghiali sono diventati un potenziale pericolo per il traffico stradale soprattutto nelle aree urbane dove gli incontri sono ormai all’ordine del giorno. Senza trascurare poi, come troppo spesso avviene, gli effetti di tale espansione su altre specie (anche a rischio di estinzione) animali e vegetali, come ad esempio rettili, anfibi, piccoli mammiferi o uccelli che nidificano a terra.
In tale contesto la caccia rappresenta, probabilmente, una delle strategie più utilizzate e, se vogliamo, anche economiche ed intuitive per gestire le popolazioni animali in un’ottica di riduzione delle densità. Tuttavia, il ruolo della caccia rimane controverso e la letteratura scientifica non sempre è ed è stata concorde. Tra le diverse modalità di caccia la braccata è, in diversi paesi (ad es. Spagna, Germania, Francia e Italia), tra le più comuni e tradizionali ed è anche quella che da sempre viene additata quale strumento inefficace, responsabile di arrecare disturbo alla fauna non target e di non riuscire a contenere le popolazioni di cinghiale se non addirittura di contribuire al loro incremento.
Uno studio sui fattori che influenzano l’efficacia della braccata
Proprio per cercare di dipanare questa matassa in un recente studio dal titolo “The number of hunters and wild boar group size drive wild boar control efficacy in driven hunts” appena pubblicato su “European Journal of Wildlife Research (2023)” i ricercatori hanno indagato quali sono i fattori che determinano l’efficacia o meno nel contenimento delle braccate al cinghiale.
I fattori considerati sono stati i seguenti:
- Numero di poste. Questo fattore può essere considerato come una misura dello sforzo di caccia. L’ipotesi degli autori è che un numero maggiore di poste possa portare a una percentuale maggiore di cinghiali abbattuti (ossia a una migliore efficacia venatoria).
- Numero di cani impiegati nella caccia. L’ipotesi è che un numero maggiore di cani possa coprire in modo più efficiente l’area della cacciata e scovare con maggior successo i cinghiali nascosti. Questo potrebbe migliorare la riuscita della braccata e mandare alle poste più cinghiali ma, contemporaneamente, potrebbe anche diminuirne l’efficacia in quanto più cinghiali alla stessa posta potrebbero ridurre la percentuale di abbattimenti.
- Numero di cinghiali avvistati in battuta (cacciati + fuggiti). Fattore utile per determinare il numero minimo di cinghiali presenti nell’area di battuta. In pratica l’ipotesi è quella di verificare se la quantità di cinghiali presenti in un’area possa influenzare l’efficacia venatoria.
- Numero di cinghiali per branco. In questo caso l’ipotesi da verificare è che branchi più grandi possano ridurre l’efficacia della caccia durante la braccata, poiché è difficile abbattere più di un individuo per opportunità di tiro.
- Stagionalità. Più cacciatori potrebbero essere inclini a cacciare nella prima parte della stagione venatoria (autunno, ottobre-dicembre), quando le condizioni meteo sono meno avverse, rispetto alla seconda parte (inverno, gennaio-febbraio). Inoltre, il numero di cinghiali o l’uso dello spazio potrebbero cambiare nel corso dell’anno.
Inutile sottolineare come sia importante, nel contesto attuale, cercare di comprendere quali di questi fattori possa influenzare maggiormente la caccia e, nello specifico della braccata, in quanto potrebbe contribuire ad ottimizzare al meglio la gestione del “problema-risorsa” cinghiale.
Com’è stato condotto lo studio
Il lavoro è stato condotto a Gredos, nella Spagna centrale. Sono stati analizzati i dati relativi a 92 battute di caccia al cinghiale avvenute in 4 stagioni venatorie consecutive dal 2017 al 2021 in otto comuni. L’area di studio è collocata ad un’altitudine di circa 1000 m sul livello del mare ed è caratterizzata da un clima tendenzialmente freddo, con neve presente in inverno, in parte della primavera e dell’autunno, e un’estate relativamente fresca. L’habitat della zona è costituito principalmente da boschi e macchia mediterranea ma sono presenti anche pascoli per il bestiame e colture agricole. Nell’area si stima che la densità della popolazione di cinghiali sia vicina a 4 individui/km2.
Le braccate considerate sono state svolte durante i mesi autunnali e invernali (da ottobre a febbraio) con l’ausilio di mute di cani che generalmente erano composte da segugi accompagnati anche da molossi. Sono state utilizzate da 1 a 8 mute per braccata, con circa 15 ± 5 cani per muta come è consuetudine nelle battute di caccia al cinghiale in questa regione. Il numero di poste per battuta variava da 6 a 82 e la superficie coperta nelle singole cacciate variava da 100 a 450 ettari.
I risultati: quali fattori influenzano l’efficacia della braccata
Dalle analisi è emerso che l’efficacia della braccata dipende fondamentalmente dal numero di cacciatori coinvolti, con un’ulteriore influenza da parte della dimensione dei branchi presenti nell’area interessata dalla cacciata.
Che il numero di cacciatori (poste) potesse essere identificato come un fattore chiave nel successo della braccata era già stato riconosciuto in un altro studio svolto, questa volta, nel nord-est della Francia da Vajas et al. nel 2020. Un numero maggiore “di fucili” garantisce una migliore copertura delle potenziali vie di fuga soprattutto se si considerano, nel paragone, aree di dimensioni equiparabili. In particolar modo un numero maggiore di poste è strettamente necessario quando si pratica tale caccia su grandi superfici (oltre 250 ettari). Il risultato può apparire logico e forse scontato anche se, su questo punto, chi abbia un minimo di esperienza potrebbe dissentire. Si sa che alcune poste sono notoriamente più “fortunate” data l’abitudine del cinghiale a scegliere quasi sempre le medesime vie di fuga. Ma a grande scala è innegabile che l’aumento dei fucili possa essere correlato positivamente a un aumento dell’efficienza della caccia
Ad ogni modo, come sottolineano i ricercatori questo aspetto relativo al numero di cacciatori coinvolti è difficilmente migliorabile a causa del crollo della “vocazione venatoria”: in diversi paesi europei il numero dei cacciatori sta lentamente, ed inesorabilmente, diminuendo oltre che costantemente invecchiando e la Spagna (ma anche l’Italia) non fa certo eccezione. Gli autori suggeriscono che per avere più cacciatori l’attività venatoria andrebbe “facilitata” e non osteggiata. Questo fornendo maggiori informazioni sui benefici ambientali e sociali della caccia; informazioni necessarie per migliorarne la percezione da parte dell’opinione pubblica. Insomma, quello che ci diciamo da anni in merito alla cattiva comunicazione svolta da tutto il comparto!
Un altro aspetto, questo secondo me cruciale, che emerge dallo studio è relativo all’efficacia della braccata in relazione alla densità dei cinghiali. Fondamentalmente la caccia in braccata diventa meno efficiente all’aumentare della densità dei cinghiali, limitandone le capacità di contenimento numerico. In sostanza, più cinghiali arrivano contemporaneamente alla posta minore è l’efficacia di abbattimento. Questo potrebbe spigare anche perché, come accaduto nel nostro Paese, questa tecnica di caccia abbia quasi estinto la specie a inizio del secolo scorso mentre attualmente con difficoltà riesce a contenerne il continuo aumento.
Densità di cinghiali ed efficacia venatoria sembrano essere anche influenzate anche dal numero di cani impiegati. Dallo studio, infatti, emerge che le mute abbondanti possono contribuire a una maggiore riuscita della caccia: sbrancando i cinghiali mandano gruppi più piccoli alle poste, migliorando così l’efficacia venatoria. Un fattore che può essere determinante sopratutto in quegli habitat con scarsa visibilità e matrice intricata, come la tipica macchia mediterranea.
La stessa divisione in più branchi, di minori dimensioni, si potrebbe ottenere uccidendo più femmine. Quello della perdita della “matriarca” è un aspetto sottolineato da altri lavori e da sempre associato a una maggior dispersione sul territorio, con conseguente aumento dei danni. Ripensando a questo fenomeno alla luce dei dati del nuovo studio gli autori ipotizzano che uccidere più femmine possa essere utile per avere branchi più piccoli per le successive braccate, migliorando quindi l’efficienza venatoria. Un’ipotesi che andrà comunque valutata, perché fare più braccate nella medesima area potrebbe non avere necessariamente effetti migliori; ad esempio aumentando il disturbo, il cinghiale può abituarsi o assuefarsi portando ad una minore efficacia della caccia.
In conclusione, i ricercatori sottolineano come la “caccia ricreativa” in braccata rappresenti comunque un valido strumento di controllo nei programmi integrati di gestione (accanto quindi ad altre pratiche venatorie) del cinghiale ribadendo come il monitoraggio costante delle popolazioni sia necessario e fondamentale per migliorare l’efficacia della gestione stessa. Questo senza dimenticare che caccia e controllo sono attività distinte ma nemmeno tralasciando che non può esistere ormai attività venatoria che prescinda dalla gestione faunistica.
Conclusione
Ho cercato in queste righe di presentare un sunto di quanto riportato nell’articolo citato; chi volesse approfondire ulteriormente potrà esaminare il lavoro originale nella sua interezza.
La braccata, tradizionale in diverse aree del nostro paese, è divenuta tra le cacce più praticate grazie anche alla ripresa del cinghiale. Troppo spesso nel giudicarla si giunge a conclusioni senza valutare attentamente aspetti cruciali come invece, in parte, questo articolo ha fatto sfatando o contraddicendo alcuni luoghi comuni. Proprio per questo vorrei evidenziare, prima di congedarmi, che in molti (troppi) altri articoli si tenda eccessivamente a sottovalutare il contesto, sia storico che ambientale, in cui determinati “eventi” si sono verificati. Questo è avvenuto ed avviene anche in relazione alla braccata.
Tutto ciò al netto degli errori commessi e, ahimè reiterati, anche dal mondo venatorio. Mondo venatorio nel quale è richiesta ancora oggi una forte spinta verso una crescita culturale poiché troppo spesso appare non ancora all’altezza del compito che è chiamato a svolgere. Per tali ragioni sarebbe auspicabile la realizzazione di studi simili anche in altri paesi, compreso il nostro, con i cacciatori ed i loro rappresentanti in primis che dovrebbero farsi promotori di queste ricerche anche per sanare gli errori del passato.