L’Allodola, un declino che può essere fermato
L'allodola è in declino: si stima che negli ultimi 40 anni si sia perso più del 50% della popolazione europea. Ma conoscendo le cause e agendo su di esse è ancora possibile invertire il trend
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L’Allodola (Alauda arvensis) è il più comune e diffuso Alaudide del Paleartico occidentale. La specie è parzialmente migratrice e in inverno abbandona le aree più continentali e settentrionali del suo areale di nidificazione che si svolge principalmente da marzo (fine aprile in montagna) a settembre. Il nido è costruito in una depressione del terreno, la femmina vi depone da 3 a 4 uova che cova per 10-13 giorni. I nidiacei, alimentati anche dal maschio, abbandonano il nido all’età di 8-10 giorni e sono capaci di volare dopo 16-20 giorni. Le covate annue sono solitamente 2-3, a volte 4. La ricerca del cibo per i pulli avviene per lo più nella vegetazione bassa per cui, quando in estate le piante raggiungono una certa altezza, le aree coltivate diventano meno idonee.
La migrazione autunnale inizia nel mese di agosto ed è concentrata dalla seconda decade di ottobre alla prima di novembre. Gli uccelli che migrano in Italia provengono da popolazioni nidificanti nelle aree dell’Europa centro-orientale. In genere i maschi della specie hanno una minore propensione a migrare, svernano più a nord e transitano più tardi delle femmine (Donald 2004).
Stato della popolazione estera e italiana
Durante il XIX secolo l’Allodola ha espanso il suo areale grazie alla deforestazione e all’espansione delle coltivazioni e dei pascoli. Nel nostro Paese la specie occupa, in periodo riproduttivo, tutto il territorio nazionale eccetto la Puglia meridionale e gran parte della Sicilia (Brichetti e Fracasso 2007).
Oggi tuttavia, anche se a livello globale la specie è considerata dalla IUCN come “Least Concern” (minor preoccupazione), la popolazione è in decremento in Europa, dove presenta uno stato di conservazione sfavorevole. Il decremento è stato stimato essere di circa il 55% nel periodo 1980-2014, e del 20% nel periodo 2005-2017 (PECBMS 2017).
La popolazione italiana è stimata in 500.000-1.000.000 di coppie, pari a circa l’1.25% di quella continentale complessiva, e ha uno stato di conservazione considerato vulnerabile. Anche in Italia come all’estero la popolazione nidificante mostra un importante decremento, stimato nel 25-35% per il periodo 2000-2012 (Nardelli et al. 2015).
Il drastico calo della specie nell’ultimo ventennio merita un attento approfondimento, che ne permetta l’inversione con interventi mirati e tempestivi. Proviamo ad analizzare le cause del declino da un punto di vista scientifico.
Le cause del declino: le pratiche agricole
Innanzitutto, la diminuzione della specie è stata fortemente correlata all’intensificazione delle pratiche agricole e agli effetti negativi che queste hanno sugli ambienti riproduttivi e di svernamento (Chamberlain et al. 2000, Donald et al. 2001, Toepfer e Stubbe 2001). Proprio per questo la densità dell’allodola è stata addirittura proposta come indice per valutare la qualità degli ecosistemi agricoli.
Questo dato viene confermato nel nostro Paese anche dal Progetto Mito2000, durante il quale sono state prese in considerazione sei zone ornitologiche: alcune delle quali come steppe mediterranee e rilievi prealpini e appenninici mostrano popolazioni in moderato incremento, mentre nelle altre quattro risulta in declino, in particolare nelle pianure alluvionali dove l’agricoltura è più intensiva.
Le nuove pratiche agricole influenzano la specie da più fronti. Infatti, esse diminuiscono la presenza di coltivazioni con diversa struttura e differenti tempi d’impianto all’interno di un’area. Ciò influisce negativamente sul numero di covate allevate con successo (Petersen 2007) poiché non assicura la disponibilità di vegetazione di altezza e densità adatte alla specie per un lungo periodo (Chamberlain et al. 2000). In linea con quanto detto, anche l’eliminazione di appezzamenti coltivati all’interno di praterie gestite in maniera intensiva sembra avere effetti particolarmente negativi (Robinson et al. 2001).
In secondo luogo, in alcuni Paesi europei, la semina primaverile di alcuni cereali è stata sostituita dalla semina autunnale. Questo cambiamento influenza le popolazioni di allodola sia perché le coltivazioni seminate in autunno non costituiscono un habitat riproduttivo adatto alla specie permettendo in genere l’allevamento con successo di una sola nidiata a causa della rapida crescita della vegetazione (Chamberlain et al. 1999a, Donald et al. 2001b) sia perché la semina autunnale implica l’eliminazione di una buona parte delle stoppie prima dell’inverno sottraendo all’Allodola un habitat di alimentazione fondamentale nelle stagioni più difficili (Gillings e Fuller 2001). Tuttavia, occorre tenere a mente che questo discorso vale in forma minore per l’Italia. Nel nostro Paese, infatti, la semina del frumento, è sempre stata quasi esclusivamente autunnale per ragioni climatiche ed è quindi importante che queste abitudini vengano mantenute per evitare che i cereali autunno-vernini lascino il posto a mais e soia, le cui stoppie sono certamente meno idonee all’Allodola.
Un altro aspetto che le moderne pratiche agricole hanno portato con sé è l’aumentato, e spesso indiscriminato, uso di pesticidi ed erbicidi che riducono drasticamente quantità e varietà d’insetti disponibili per i nidiacei. Secondo uno studio condotto in Danimarca, il numero di giovani della specie che si sono involati per singolo territorio è risultato 50% più elevato in campi di orzo non trattati che in quelli trattati, infatti, l’allodola sembra essere una delle specie maggiormente favorite dalle pratiche tipiche dell’agricoltura biologica (Donald & Morris 2005).
Le cause del declino: il prelievo venatorio
Anche il prelievo venatorio, che soprattutto in passato non è stato affiancato da una raccolta dati precisa e puntuale che potesse guidarne i numeri e le restrizioni stagione dopo stagione, può rappresentare una minaccia per l’allodola.
Nel Piano di gestione europeo dedicato a questa specie il prelievo venatorio è considerato un fattore di rischio d’importanza medio-bassa. Questo perché tale prelievo si concentra per lo più in soli due paesi (Italia e Francia) ed è consentito soltanto in sette nazioni del nostro continente: Francia, Italia, Romania, Malta, Grecia, Cipro e Regno Unito, dove costituisce una delle principali specie cacciate con il falco.
Nella nostra penisola, in accordo con le indicazioni dell’ISPRA, il carniere giornaliero è di 10 capi e quello stagionale di 50, a eccezione di alcune regioni in cui è consentita una forma di caccia specialista e accettato un carniere di 20 capi giornalieri e 100 stagionale.
Secondo uno studio di Donald et al. (2004) viene annualmente cacciata una percentuale tra il 7% e il 25% della popolazione europea nidificante (stimata in 25-55 milioni di coppie). Pochi anni fa, si stimava che il 73% degli abbattimenti di allodole nei paesi Ue fosse effettuato in Italia, circa 1.839.500 allodole prelevate legalmente (Hirschfeld & Heyd 2005) e circa 10.000-100.000 individui illegalmente (Brochet et al. 2016).
Secondo il più recente rapporto predisposto dall’ISPRA sui dati dei tesserini venatori, invece, il prelievo risulta più basso, anche se i dati sono parziali: nella stagione venatoria 2014-2015 nelle sette regioni che hanno fornito i dati (Piemonte, Friuli Venezia Giulia, Emilia Romagna, Lazio, Campania, Puglia, Sicilia) sono state abbattute 159.183 allodole. Un prelievo più contenuto, che pone comunque l’allodola al secondo posto tra le specie più cacciate in Italia.
Questi dati confermano che, anche se certamente l’attività venatoria non è la causa principale del declino, è comunque un aspetto su cui vigilare, anche perché, come sempre, gli occhi del mondo ambientalista sono puntati sui cacciatori più che sugli agricoltori e non sarebbe una mossa astuta prendersi la colpa per la distruzione che le pratiche agricole stanno compiendo.
Come invertire il declino
Per quanto cambiare radicalmente l’attuale metodo di gestione agricola possa sembrare impossibile, ci sono alcuni interventi che potrebbero quantomeno frenare il preoccupante declino dell’allodola. Recenti studi in zone montane appenniniche, per esempio, indicano che la riapertura di zone prative ha un effetto positivo, seppur limitato, per la specie. Un altro intervento che appare favorevole è l’ampliamento di zone con erba medica, questa pianta foraggera non viene falciata frequentemente, consentendo in genere all’allodola di allevare le proprie nidiate (Brodier et al. 2013, Kuiper et al. 2015). Inoltre, l’erba medica non richiede l’uso di pesticidi che, come abbiamo detto, rappresentano una delle principali minacce per questa specie.
Infine, alcuni autori suggeriscono di sospendere il prelievo a dicembre o di limitare il carniere giornaliero in questo mese qualora si verificassero particolari condizioni climatiche (es. forti gelate). È infatti stato ipotizzato che la caccia all’allodola in questo periodo interessi principalmente le femmine in quanto i maschi svernano più a nord di quest’ultime e ciò aumenterebbe l’impatto dell’attività venatoria sulla popolazione nidificante.
In conclusione, invertire il declino sembra possibile a patto che sia mondo agricolo e che quello venatorio compiano degli sforzi significati per salvaguardare il destino dell’allodola.
Pratico la caccia alle allodole da molti anni. Fondamentale nelle Puglie o la Basilicata. Negli anni ho notato un grande cambiamento del territorio. Sempre più difficile trovare stoppie e sempre più spesso ( già dai primi di ottobre) vediamo solo campi arabi. Manca il sostentamento all’animale che migra. Il problema non è certamente da attribuire ai ca ciatori che sono sempre meno numerosi. Credo che una grande responsabilità in merito al calo delle allodole sia da attribuire all’agricoltura ed ai pesticidi. Condivido quanto scritto da Mauro…. il calo ha riguardato tutte le speci minori che non vengono cacciate…. senza dimenticare le rondini…
È triste.
sono d’accordo con Mauro, e’ palese che abbiamo da fare con degli incompetenti.
ho raggiunto le 78 primavere, avevo 16 anni quando incominciai a cacciare le allodole, credo di avere maturato in 62 anni
l’esperienza per poter affermare che l’apertura alle allodole dovrebbe essere dal 1 ottobre e la chiusura al 15 novembre.
Spero che queste considerazioni vengano percepite agli addetti ai lavori, e che le mettano in pratica!!!
Siamo alle solite… Il declino delle allodole è sopratutto causato dall’agricoltura come descritto dal precedente articolo, inoltre con l’introduzione dei pesticidi, molti terreni incolti, i prelievi eccessivi e consentiti in alcune nazioni come la Macedonia, Grecia, Tunisia ecc. ecc. Perché l’ISPRA non interviene? (si parla di prelievi al giorno di 100 allodole per cacciatore e anche più).
È ridicolo il prelievo consentito in Italia di 10 allodole al giorno e di 50 capi all’anno. Sono talmente poche le belle giornate di sole cacciabili alle allodole, e quando si trova la giornata ideale, per un sparatore discreto le 10 allodole le fa in mezz’ora, dopo aver montato l’appostamento, la civetta, il macaco ecc. ecc. deve smontare tutto e andarsene.
Almeno dovrebbe essere consentito un prelievo di 20/30 allodole al giorno e aumentare le giornate di caccia sempre tre alla settimana ma a scelta su cinque giorni.
Saluti Nanni Rabbò
QUANTE SPECIE DI PICCOLI UCCELLI NON VENGONO CACCIATI E LA LORO DIMINUZIONE È EVIDENTE E SUPERIORE ALLA ALLODOLA – PEPPOLE – PASSERI – ZIGOLI – CARDELLINI SONO QUASI INESISTENTI E NON CACCIATI DA ANNI.
NON È IL FUCILE CHE DETERMINA LE GROSSE DIMINUZIONI MA L’HABITAT…
PERCHE’ IL COLOMBO LO STORNO CACCIATI TUTTO IL PERIODO DELLA STAGIONE VENATORIA SONO IN GROSSO AUMENTO. Forse i cacciatori usano cartucce senza pallini.
Per l’allodola possono chiudere la caccia anche il 30 di novembre, il passo è finito da due settimane.
Dicembre un cacciatore non pratica le allodole è più intelligente di chi programma la chiusura. È a conoscenza di quando praticare la caccia.