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Emergenza Cinghiali: come si è passati da una risorsa a un problema

Il cinghiale in Italia, tra errori e biologia vincente

Nel nostro paese il cinghiale è una delle specie più conosciute e più controverse, tanto che da alcuni anni ormai si parla di “emergenza cinghiali” e non di rado ritroviamo fotografie che ne ritraggono alcuni esemplari, a corredo di fatti di cronaca, anche sulle pagine dei quotidiani nazionali. Ne è un esempio il recente incidente avvenuto sulla A26, causato dalla presenza in autostrada di due cinghiali, che ha portato alla morte di due persone.

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Tutto questo è principalmente dovuto al fatto che il cinghiale è una delle specie più presenti e in buona salute della nostra penisola, e non solo. I numeri sono così elevati che da diversi anni si è cercato di capire da cosa essi possano essere giustificati. Molte cose sono state dette e sono numerose le accuse mosse al mondo venatorio, additato di aver immesso per anni esemplari incrociati con i suini domestici creando una specie a sé, più resistente e più prolifica di quella autoctona.

Con questo articolo si cercherà di fare un po’ di ordine prendendo in considerazione i dati esistenti per ricostruire l’andamento e gli apporti antropici della popolazione italiana di cinghiale.

Per fare questo partiamo da alcune considerazioni: innanzitutto, osservando la distribuzione del cinghiale dal punto di vista globale ci accorgiamo che è uno dei Mammiferi geograficamente più diffusi del Pianeta; l’areale originario si estende in quasi tutta l’Europa, l’Asia e nell’Africa settentrionale, mentre quello attuale si è allargato all’America, all’Australia e ad alcune isole del Pacifico. Appare quindi ovvio che il problema “cinghiale” in Italia ha le sue origini nella biologia e nella capacità di adattamento della specie stessa. Ovviamente quella per così dire naturale non può essere considerata l’unica causa dei problemi nella gestione di questo animale.

La presenza in Italia: il trend dell’ultimo secolo

A livello italiano, la sottospecie autoctona della regione settentrionale è scomparsa dall’arco alpino prima che la si potesse caratterizzare dal punto di vista genetico, ma anche per Sus scrofa meridionalis e Sus scrofa majori (De Beaux e Festa, 1927), che sono tutt’ora presenti sul nostro territorio, le informazioni sono poche e confuse. Le analisi compiute su esemplari di Sus scrofa majori, che viene formalmente associata alla Maremma, hanno sottolineato come dal punto di vista genetico questo gruppo non si differenzi dagli esemplari presenti sul resto del territorio nazionale (Sus scrofa scrofa); per quanto riguarda, invece, gli esemplari di Sus scrofa meridionalis, popolazione associata alla Sardegna, le analisi genetiche sottolineano una certa distanza dalla sottospecie sopracitata facendone ipotizzare la provenienza da popolazioni di suini domestici anticamente inselvatichiti (Apollonio, 2003a).

Proviamo ora a tracciare le tappe storiche della presenza di questa specie in Italia. La presenza storica su buona parte del territorio nazionale ha subito una costante diminuzione a partire dalla fine del 1500 a causa dell’accanimento dell’attività venatoria. Il punto più basso a livello di presenza della specie si è avuto nell’immediato dopoguerra quando scomparvero le ultime popolazioni viventi sul versante adriatico della penisola; circa tre decenni prima, invece, il cinghiale era ricomparso in Piemonte e Liguria, diffondendosi in modo autonomo dalla Francia. Soltanto alla fine degli anni ’60 i numeri hanno ricominciato a crescere grazie ad alcuni cambiamenti che caratterizzarono anche gli altri stati europei in quel periodo: l’abbandono di molti appezzamenti di terra che fino a quel momento erano stati utilizzati per l’agricoltura o come pascoli ha permesso ai boschi di avanzare riconquistando ettari che da secoli gli erano stati sottratti; la presenza umana è andata accentrandosi nei centri urbani più grandi con il conseguente abbandono delle aree più isolate, la diminuzione della pressione venatoria e soprattutto il calo della accanimento diretto con il quale gli agricoltori avevano difeso nei decenni precedenti le loro coltivazioni.

Parallelamente a questi eventi, a partire già dagli anni ’50, si è osservato anche un drastico aumento delle immissioni, inizialmente di esemplari catturati all’estero e successivamente d’individui allevati sul territorio nazionale. Nonostante sia credenza diffusa che l’immissione di esemplari di provenienza estera abbia modificato il patrimonio genetico e fenotipico dei cinghiali nostrani, recenti ricerche genetiche sembrano dimostrare che la specie in Italia non ha perso la sua identità genetica.

Il cinghiale, oggi, nella nostra penisola

Al giorno d’oggi il cinghiale è l’ungulato più presente in Italia, il suo areale si estende per il 64% del territorio nazionale (Banca dati ungulati: status, distribuzione, consistenza, gestione e prelievo venatorio delle popolazioni di ungulati in Italia, anno 2009, L. Carnevali et al., ISPRA) e uno studio del 2007 indicava come in quell’anno le immissioni illegali di esemplari di questa specie fossero segnalate nel 40% delle regioni italiane (Monaco et al., 2007). Questo dato ci indica chiaramente che questo elemento, unito alla biologia vincente del cinghiale, sta alla base dell’esplosione numerica della specie che in pochi anni ha raggiunto 95 delle 107 province italiane. Inoltre, questo fenomeno è difficilmente controllabile e arginabile sia per mancanza di fondi e personale in grado di contrastare un numero così alto di violazioni, sia per questioni sociali e politiche. A questo problema si affianca una gestione faunistica della specie che non favorisce la raccolta d’informazioni scientificamente accettabili e precise; a differenza degli altri ungulati, infatti, il cinghiale non è soggetto a censimenti annuali e a prelievi selettivi che nel caso di specie come il capriolo sono fonte d’informazioni sul trend delle popolazioni e sulla salute delle stesse.

Le immissioni illegali non sono certo l’unica causa della crescita esponenziale di questa specie; numerosi studi scientifici concordano nel dire che la maturità sessuale delle femmine di cinghiale viene raggiunta indipendentemente dall’età; esse possono infatti riprodursi solo ed esclusivamente al superamento della soglia dei 30 kg di peso. Conseguentemente la differenza tra un individuo che la raggiunge a sei mesi di età e un altro che la raggiunge a diciotto, sta nella quantità di risorse alimentari disponibili.

Nella nostra penisola la grande disponibilità di cibo, che deriva dalla sempre maggiore estensione dei boschi, dai campi coltivati e da tutto l’insieme di risorse trofiche, tra cui rifiuti e quant’altro, che sono spesso facilmente raggiungibili dai cinghiali, fa sì che in quasi tutto il territorio nazionale a 15 mesi di età tutte le femmine siano gravide e quelle poche che non lo sono devono soltanto mangiare, ingrassare e cominciare a generare prole, anche perché le femmine di questa specie hanno un ciclo estrale che si ripete mensilmente.

Risorsa o problema, due mondi a confronto

Il cinghiale è una specie attorno alla quale due mondi si scontrano ormai da diversi anni; infatti se da una parte l’interesse del mondo venatorio è andato aumentando con un sempre maggior desiderio di averne una consistente presenza su tutto il territorio nazionale, dall’altra si tratta di una specie i cui danni investono in maniera violenta il mondo agricolo rendendo economicamente insostenibili i numeri attuali. Basti ricordare che per i danni causati dal cinghiale viene speso l’80% dei fondi a disposizione delle amministrazioni provinciali per far fronte all’impatto causato dalla fauna selvatica sulle attività antropiche d’interesse economico.

Per tentare di evitare i continui scontri tra il mondo dell’agricoltura e il mondo della caccia sarebbe fondamentale riuscire a eliminare le immissioni a scopo venatorio sull’intero territorio italiano. Un passo importante verso questo obiettivo è stato fatto con la legge n. 221 del 28 dicembre 2015 con la quale è stata vietata l’immissione di cinghiali su tutto il territorio nazionale, fatta eccezione per le aziende faunistico-venatorie e per quelle agri-turistico-venatorie adeguatamente recintate. La comparsa, però, di nuove popolazioni in territori in cui l’immigrazione spontanea è da escludere a causa della conformazione geografica, è un chiaro indicatore che il fenomeno delle immissioni è lungi dall’essere eradicato. Sottolineava la pubblicazione dell’ISPRA sopracitata che, ancora nel 2009, molte amministrazioni avevano autorizzato, o addirittura attuato direttamente, nuove immissioni di cinghiali a scopo di ripopolamento.

Inoltre, molte amministrazioni pubbliche concedono con facilità le autorizzazioni per instaurare nuovi allevamenti di questa specie anche nella consapevolezza che non saranno mai in grado di attuare un rigoroso controllo lasciando così al solo buon senso degli allevatori la decisione di produrre carne o esemplari da ripopolamento illegale.

Infine, le modalità di prelievo utilizzate per la maggior parte degli abbattimenti (la braccata con cani da seguito) destrutturano le popolazioni risparmiando gli individui più giovani che tendono ad apportare più danni alle colture di quelli vecchi.

Alla luce di tutto questo appare fondamentale l’aiuto di tutti coloro che, per lavoro o per passione, vivono a contatto con la natura e di conseguenza, consapevolmente o meno, con questa specie. Aiutarsi e collaborare è l’unico modo per poter giungere a una gestione intelligente, che consideri questa specie una risorsa rinnovabile e controllata.

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Mauro Poli
Mauro Poli
3 anni fa

“le modalità di prelievo utilizzate per la maggior parte degli abbattimenti (la braccata con cani da seguito) destrutturano le popolazioni risparmiando gli individui più giovani che tendono ad apportare più danni alle colture di quelli vecchi.”

Non sono per nulla d’accordo con quanto sopra. Sicuramente qualcuno al passaggio di un branco tira ai più grossi ma per lo più i piccoli sono i meno furbi ed i primi ad essere alzati venendo abbattuti, anche se striati, in quanto lasciarli passare vuol dire fare uscire i cani dalla battuta rovinandola. Cani che poi, a volte, recuperarli vuol dire per i conduttori stare in giro ore ed ore, pur con tutti i satellitari odierni ed a volte ritrovarli dopo gioeni.
La girata alla fine ha le stesse caratteristiche e casualità. La selezione, per quanto si dica, nel 70% dei casi tirano all’esemplare e non ai piccoli che poi si disperdono.

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