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Un vecchio amico, una riserva e le risaie

Mai come quell’anno, sentii la necessità dell’Autunno. Fisicamente e mentalmente necessitavo proprio di una mezza stagione, piovosa, nebbiosa, umida, malinconica e terribilmente romantica. Una stagione transitoria che dalla soleggiata e frenetica estate mi accompagnasse pian piano verso il quieto inverno.

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Sarà capitato a tutti almeno una volta nella vita di smarrirsi a tal punto da non sapere più chi si è, non tanto per una perdita di valori, di cultura o del proprio io, ma per una serie di congiunture astrali per cui casa e lavoro si intrinsecano così tanto nella marea di impegni che scandiscono la routine quotidiana, che non si ha più quasi il tempo di respirare. Sono periodi di questo genere che fanno nascere il bisogno di uscire da quel moto repentino e caotico fatto di eventi programmati, alla ricerca di pace, quiete e di un po’ di serenità.

L’invito di un caro amico

Fu proprio in quei giorni frenetici che, manco farlo apposta, ricevetti una telefonata da un caro amico conosciuto ai tempi del liceo, anch’egli cacciatore figlio d’arte, che mi invitava ad una cacciata nella riserva che aveva l’onere e l’onore di gestire e di cui voleva un parere spassionato.

Mi dovetti prontamente smarcare, sottolineando che nonostante lui mi stimasse oltre al resto come cacciatore di un certo livello, il mio parere contava al pari del due di picche quando la briscola sta a coppe, semplicemente perché in tutta sincerità non mi sentivo e non mi sento tale. In questo senso, pour parler ho sentito mille volte parlare di cacciatori buoni oppure cattivi, bravi od incapaci, furbi, allocchi, lenti o desti e di qual si voglia altra tipologia e razza, ma di cacciatori soltanto… beh, no! Quello mai! Se di titoli mi dovessi fregiare come cacciatore credo che per definizione come tale mi considererei, di esserlo non tocca a me dirlo ma a quelli che mi succederanno. Comunque, per tornare in tema, lui insistette dicendomi che il mio parere su quella location, invece, sarebbe stato per lui prezioso soprattutto per una certa cosa che non palesò e di cui mi avrebbe dato spiegazioni quando sarei stato sul posto. Prima di riattaccare il telefono mi disse che sarebbe stato necessario che io portassi uno o due dei miei ausiliari.

Era un martedì sera, concordammo il mio arrivo per il sabato successivo. Non nego che tutto quel mistero mi stuzzicò l’immaginario e intrigò parecchio la mia curiosità a tal punto che il sabato mattina mi sveglia di buon’ora per caricare il mio Land Rover con il necessario per me e per i cani, scelsi di portare due giovani kurzhaar, due fratelli di cucciolata di nome Nick e Tom, bisognosi di esperienze e di incontri nonostante il loro sangue fosse sicurezza di qualità. Sangue per inteso, proveniente da un noto affisso della mia terra, il pavese, da cui sono arrivati tutti i Kurtzhaar della mia vita.

L’appuntamento era fissato per le 08:30. Partii alle 05:00 in punto nonostante avessi solo 2 ore di viaggio per raggiungere la riserva, oggi non più esistente, che si localizzava nel biellese. Quel tanto agognato ottobre, dopo i primi quindici giorni di acquazzoni a non finire, si era ingentilito e mi lasciava sperare in una giornata nuvolosa e perché no anche un po’ uggiosa di matrice maledettamente autunnale. Proprio una di quelle giornate che desideravo a tutti i costi per colmare quella sete di malinconia e di romanticismo che sin da bambino mi ha accompagnato per tutta l’esistenza e che continua a farlo, influendo decisamente sulle mie scelte. Da subito realizzai di aver preso una giusta decisione perché quando entrai in autostrada mi ritrovai davanti un muro di nebbia fitta, non sicuramente come quelli che caratterizzavano la pianura padana una trentina di anni fa ma comunque impegnativa.

Mentre guidavo prestando attenzione alla strada, pensavo e ripensavo a cosa mi sarei trovato davanti una volta giunto sul posto. Su per giù l’ambiente delle riserve della zona è sempre lo stesso: chi più chi meno, c’è sempre una parte di territorio incolto che si intervalla a coltivi di vario genere e a qualche boschetto in cui, generalmente lepri, fagiani e starne trovano agio accompagnati da una serie di comparse minori, come i migratori di passo. Sapendo come il mio vecchio amico fosse un “vero appassionato” mi aspettavo di trovare fauna di ottima qualità, ben ambientata e poco incline a farsi catturare, per cui mi sarei sicuramente divertito.

La riserva

Giunsi in loco per tempo alle 08:30 con due occhi stralunati dal fissare la strada praticamente coperta da un lenzuolo di fumo bianco. Per fortuna dopo una decina di chilometri di statale percorsa fuori dall’autostrada la nebbia lasciò gradualmente il posto ad una leggerissima pioggerellina che mi fece subito sentir bene.

Sul piazzale della casa di caccia trovai il mio carissimo amico che mi aspettava in compagnia del padre e dalla Sorella minore. Fui calorosamente accolto e tra abbracci e pacche sulle spalle mi presentó i suoi due famigliari, persone estremamente squisite e gioviali. In meno di 10 minuti mi sentii subito come a casa.

Mi fu offerto un buonissimo caffè fatto con una vecchia moca su di una stufa a legna antica di quelle molto in voga ne primi anni del Novecento, che assieme a un tavolo, sei sedie, due poltrone e un paio di mensole su cui prendevano polvere delle bottiglie di liquore e un barattolo di zucchero, costituivano il grosso dell’arredamento del casotto di caccia, un luogo spettacolare, interamente rivestito in legno color noce con travi del tetto a vista, dove una finestra che dava verso quella che un tempo era un’aia che in quei giorni veniva utilizzata come piazzale e parcheggio. Sui muri perlinati erano appesi diversi trofei ed animali impagliati, che scoprii successivamente, erano stati cacciati nella riserva in tempi non sospetti. Le strutture adiacenti erano tutte case coloniche di chi un tempo lavorava queste terre ristrutturate ed adibite ad alloggio per gli ospiti venuti da lontano ed una di queste fungeva da sala da pranzo con adiacente la cucina.

Durante la permanenza nel casotto di caccia, mentre si sorseggiava caffé e si respirava il buon profumo della legna che bruciava nella stufa, il mio anfitrione mi raccontò la storia di quel posto, nato come riserva padronale negli anni 20 per volontà di un non specificato aristocratico che da Torino scappava li ogni volta che poteva per cacciare degli splendidi fagiani che faceva allevare appositamente in loco per soddisfare la sua passione nell’utilizzare il Pointer inglese di cui si sentiva ereditiere depositario della “somma verità assoluta” sulla razza. Col tempo e due guerre mondiali di mezzo la proprietà finì nel dimenticatoio, per poi ritrovarsi in un fondo fiduciario di una grossa società straniera che la ristrutturò e la tenne come rappresentanza per invitarci partner commerciali e clienti. Vennero gli anni Novanta, la grossa società fu assorbita da una multinazionale e la proprietà fini nelle mani del suo ultimo e credo attuale proprietario, che iniziò a coltivarne le terre in modo così redditizio da permettergli in una decina di anni di raggiungere una certa solidità finanziaria, dall’alto della quale incaricò il mio amico di riavviare e di gestire in modo proficuo anche la riserva di caccia.

Finito il racconto sulla riserva mi propose di fare un giro per conoscerne i vari ambienti. Ciò che mi colpì subito fu la grande estensione territoriale di quel posto, si parlava infatti di alcune migliaia di ettari tra coltivi, incolti, boschi di cui almeno uno naturale e alcune zone umide. Iniziammo col visitare quest’ultime. Si trattava di piccoli laghetti non più grossi di un campo da tennis con profondità variabile tra 30 cm ed il metro, contornati da un fitto intreccio di cannette, casa e rifugio di gallinelle d’acqua, folaghe e porciglioni, e forte attrazione per gli anatidi di passo che nei giusti orari erano più o meno sempre presenti. Mi fu spiegato che questo comparto era quello che richiedeva più cura e manutenzione per preservarne l’integrità e fare trovare agli anatidi un luogo perfetto per la loro permanenza. Ognuno di questi piccoli invasi aveva un casotto di legno completamente avvolto e mimetizzato dalle cannette e da materiali appositi di riporto come zolle di terra ed erbacce rampicanti che li rendevano molto naturali. Venne poi il turno del bosco naturale che si estendeva per un quinto della riserva e che era popolato principalmente da cinghiali e, nelle fasce di transizione con coltivi e incolti, da caprioli. Guardando quegli alberi e quel sottobosco non potei non pensare alla regina del bosco, che mi assicurarono essere molto presente nei giusti periodi dell’anno. I pioppeti, invece, mischiati con qualche pianta di buttata fungevano da posatoi per i colombacci presenti in grandissimo numero, favoriti dalle stoppie di mais adiacenti i boschetti, colture così strategicamente posizionate l’anno precedente col preciso intento di creare un giusto habitat per questi animali. Per ultima mi fu mostrata la parte coltivata a riso, diverse migliaia di ettari, fantastiche stoppie allora non livellate a laser, mantenute umide anche durante la mietitura e che rappresentavano il motivo per il quale il mio amico volle invitarmi quel giorno.

Conoscendomi molto bene, sapeva della mia passione spropositata per la caccia al beccaccino e voleva da me un parere tecnico, se così si può definire, perché la settimana successiva ci sarebbe stata l’inaugurazione ufficiale della riserva e necessitava di un rapporto il più preciso possibile sulla situazione generale e dello scolopacide in particolar modo, che avrebbe concesso alla sua più esigente clientela che era in attesa di poter esercitare con entusiasmo le proprie attività venatorie su quei terreni a lungo tenuti interdetti ai cacciatori.

Le risaie

Lo scenario che mi si presentava davanti era quasi surreale: ettari ed ettari di stoppie perfette per ospitare lo scolopacide in questione, gioia e dolore di ogni cacciatore cinofilo.

Guardando la vastità di quei terreni inizia a capire che si prospettava una giornata impegnativa, almeno in apparenza, perché nonostante tutto fosse così perfetto, l’esperienza mi suggeriva di non dare nulla per scontato, nemmeno la presenza degli animali. Non essendo pratico della zona non avevo idea sui tempi del passo, non sapevo quando e se fosse arrivato il selvatico. Pensandoci, fui invitato proprio per quello, per cui immaginai che il mio compagno si fosse accertato della buona presenza di animali prima di telefonarmi, altrimenti la mia presenza lì non avrebbe avuto altro senso se non quello della cacciata in compagnia tra amici e la si sarebbe potuta fare anche più in là nella stagione. Comunque fosse, ero lì, con cani e schioppo, allora smisi di essere pessimista e mi concentrai su tutto il resto.

Tornammo al casotto di caccia per prepararci, era infatti sua intenzione godersi una giornata a caccia con me. Mi spiegò che una volta partita la stagione difficilmente avrebbe potuto godere di un simile lusso, per cui si ritagliò quella singola giornata per stare in compagnia e valutare anche attraverso i miei occhi la qualità di ciò che si prestava a proporre ai clienti.

Uscimmo senza utilizzare i fuoristrada, con schioppo in spalla e cani al guinzaglio come si faceva in tempi decenti, baldanzosi, quasi boriosi, parlando di donne e di cani da caccia come nella più radicale delle tradizioni della categoria.

Giungemmo nei pressi del primo incolto, liberammo i cani e concedemmo loro il tempo di scaldarsi sgranchendosi le gambe ed espletando nel contempo i loro bisogni fisiologici. Tom ad un certo punto captò un’emanazione provenire dai bordi dell’incolto. Iniziò il suo avvicinamento per fare l’accertamento, passò dal galoppo al trotto per poi rallentare progressivamente fino a cadere in ferma. Mi avvicinai per servirlo ma vidi che iniziò a guidare muovendo la coda ed intuii che l’animale stava allontanandosi dal pericolo pedonando. Cadde in ferma nuovamente dopo una ventina di metri, questa volta coda dritta, segno che il selvatico ce lo aveva davanti. Gli accarezzai la testa e lo esortai a fare un altro passo, e poi un altro, finché un bel maschio di fagiano con una coda bellissima spicco il volo. Puntai la mia Sarasqueta lo seguii ed aprii il fuoco. Il piombo 7 da 32 grammi fece il suo dovere. Pochi attimi dopo Tom esegui un buon riporto. Avevo quasi nelle mani la mia preda quando giunse Nik che intercettò il fratello col preciso intento di derubarlo del selvatico per gelosia. Iniziò una contesa fatta di tira e molla che si concluse col mio sopravvento. Dovetti alzare la voce per ripristinare l’ordine e la disciplina e metterne subito uno al guinzaglio. Per fortuna il fagiano non fu rovinato dagli strattoni dei due cani per cui potemmo incarnierarlo senza remore.

Continuammo secondo il percorso pensato dal mio amico, lungo questo incolto in cui trovammo altri tre fagiani, un maschio e due femmine. Si trattava di bellissimi esemplari di Mongolia ben pasciuti e molto vitali che diedero ben da fare ai due cani e ai due fucili.

Giungemmo nei pressi della prima risaia. Buttai l’occhio dentro… asciutta… decisamente non idonea per il beccaccino. Vi entrammo comunque perché da qualche parte avremmo dovuto pur cominciare, tanto valeva farlo da lì senza perdere tempo nella ricerca dello Shangri-La.

Percorremmo il campo comunque guardinghi ma pispole a parte, nient’altro si mosse da lì. La risaia successiva non fu diversa, alla fine della quale facemmo il punto della situazione. Cercai di chiarire che per ospitare il beccaccino serviva un ambiente ben preciso, al punto che gli spiegai addirittura la possibilità che prendendo in esame due campi identici, con la stessa umidità e lo stesso manto fangoso, e i beccaccini li avremmo potuti trovati solo in uno, perché il secondo nonostante le apparenze, aveva “una virgola fuori posto”. Alla luce di queste spiegazioni, il mio amico decise di spostarsi due campagne più in giù dove era sicuro ci fossero terreni con i requisiti che gli avevo descritto.

Entrammo in risaia e subito vidi due Becchi che partivano lunghi, sicuramente involati da noi. Chi pratica questa caccia sa benissimo che succede di sovente, sa inoltre che dipende in esclusiva dall’umore degli uccelli, può essere che li trovi quieti e forse li riesci ad avvicinare per giungergli a tiro, può capitare invece che siano nervosi a causa delle condizioni climatiche o della pressione venatoria per cui si involano a 100 metri appena metti piede sul bordo del campo. Quel giorno pareva fossero tranquilli nonostante i due di cui si parlava poc’anzi perché, clima a parte, disturbo umano non ne avevano ancora ricevuto. Nick iniziò a spaziare con una buona cerca fatta di lacet con trotto continuo e rilassato. Invece Tom, di temperamento più focoso, procedeva con galoppo più deciso.

Il primo ad incontrare fu appunto Tom. La sua focosità lo porto a percepire l’emanazione troppo a ridosso del beccaccino per cui lo involò. Pace! A un cane giovane si possono perdonare questi errori, sperando che in età matura, con più esperienza, non li commetta più.

Uscimmo da quella risaia per passare alla successiva, tre animali soltanto trovati in quella precedente e nessuna cattura. Ero perplesso non lo nascondo. Pochi passi e Nick cadde in ferma. Si trovava poche decine di metri davanti al mio amico per cui andò lui a servire il cane. Il becco che si trovava una decina di metri davanti al tartufo del cane spiccò il volo appena sentì l’incedere del cacciatore che per fortuna si trovava già a tiro e concluse con un’ottima fucilata questa prima azione. Nick riportò il selvatico al mio amico ed iniziò a cercarne un altro.

Non fece a tempo che Tom fermò, questa volta senza esuberanza, a poca distanza da lui costringendolo ad un consenso, ci avvicinammo in due io a sinistra il mio amico a destra. L’animale si involò dalla mia parte sempre ad una buona distanza dal cane, scoccai la mia fucilata sbagliando il primo tiro ma colpendo il bersaglio col secondo. Fu Nick ad effettuare il riporto perché Tom già stava cercando altro. Dei due Nick era decisamente il più maturo, rispetto al fratello un po’ più precoce, di buon carattere era secondo il mio punto di vista il più indicato per questo tipo di Caccia. Tom sarebbe venuto fuori successivamente, e come tutti i cani da caccia necessitava di fare esperienza e di commettere i suoi errori per imparare a gestire un selvatico che reputo in assoluto il più difficile.

Continuammo a pestare fango per tutto il resto della giornata, trovando una buona quantità di beccaccini, tra padelle nostre ed errori dei cani riuscimmo a prelevare 13 animali, carniere di tutto rispetto, ma ciò che poteva sicuramente considerarsi un buon guadagno era l’esperienza impagabile che i cani avevano fatto quel giorno.

Comunque, le valutazioni finali che condivisi col mio amico furono tutte positive, del resto chi frequenta aziende faunistico venatorie è ben consapevole che se la stanziale è una presenza certa e sicura, la migratoria è un punto di domanda ad ogni stagione. Non si può imputare ai gestori la mancanza di migratori, il passo non è gestione dell’uomo per fortuna e non credo che lo sarà ancora per molto tempo. Quello che invece si può fare è tenere gli habitat sempre intatti o quanto meno impegnarsi perchè lo siano il più possibile, evitando ad esempio la monocultura intensiva o la pulizia repentina delle rive dei canali, che garantice un minimo di ambiente in cui l’animale può trovare riparo, o l’utilizzo di veleni sulle colture e dei fanghi che rendono inospitali i terreni. Allo stesso modo chi caccia può evitare sprechi e mattanze inutili, non è il numero oggi che fa il carniere ma la qualità. Insomma, possiamo rendere la caccia più sostenibile, più consapevole e possiamo stare più attenti nel gestire il territorio anziché svuotarlo solamente dei suoi frutti.

Io non ho la presunzione di avere la verità assoluta in tasca, ma ho avuto la fortuna di girare un po’ il mondo e ho visto che dove i nostri colleghi hanno fatto proprio il concetto della gestione del territorio la caccia è abbondante e garantita a chi verrà dopo di noi.

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Ettore Venturino
Ettore Venturino
2 mesi fa

molto interessante e soprattutto considerare la caccia con tutto rispetto alla natura e non x il solo gusto di dover x forza uccidere e distruggere tutto quello che si muove…..premetto che vado a caccia solo al cinghiale….ma leggendo il contenuto mi è sembrato di vivere quella natura meravigliosa…

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