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La sostenibilità del prelievo venatorio della piccola selvaggina stanziale

A differenza della caccia agli ungulati (soprattutto cervidi e bovidi) il modello gestionale della caccia alla piccola selvaggina stanziale (fagiano, lepre, starna e pernice rossa) è rimasto lo stesso degli anni ’60. E un modello che si basa sull’alternanza di zone a caccia consentita con zone di “riserva” (Zone di Ripopolamento e Cattura). Tale modello, soprattutto per lepre e fagiano, ha funzionato abbastanza bene fino ad una ventina di anni fa, ma oggi mostra sempre maggiori limiti come vediamo dalla continua rarefazione soprattutto dei fasianidi.

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L’inefficienza delle “riserve”

Questo sistema infatti ha bisogno di riserve molto produttive che irradino spontaneamente selvaggina oppure la forniscano per cattura e ripopolamento. Ma questo avviene sempre meno perché è sempre più difficile trovare territori in grado di mantenere elevate densità di queste specie.

In collina infatti, l’ambiente è sempre meno idoneo per la continua riduzione dei seminativi, soprattutto dei cereali. L’aumento degli incolti e l’avanzata del bosco, oltre a ridurre sempre più l’habitat per queste specie, lo rende invece più adatto per ungulati e predatori. Il cinghiale in particolare esercita una forte azione di predazione sui nidi di fagiano, ma anche sui leprotti.

Nelle aree di pianura invece è l’agricoltura sempre più intensiva e specializzata il maggiore fattore limitante. Per tentare di rimediare a questi problemi, molte Zone di Ripopolamento e Cattura sono state ridotte di dimensioni e spesso sostituite con istituti faunistici di dimensioni più piccole e dotate di strutture di ambientamento per la selvaggina proveniente dall’allevamento in cattività. Una strategia che, se attuata con professionalità e programmazione, può anche funzionare, ma che non si può considerare sufficiente anche perché non priva di controindicazioni.

L’azione del prelievo venatorio

Il prelievo venatorio infatti non distingue fra animali di allevamento e selvatici, anzi spesso ha un’azione opposta a quella della selezione naturale, soprattutto per il fagiano. I soggetti più vigorosi sono quelli che vengono abbattuti per primi perché si difendono dall’azione dell’ausiliario con il volo. I soggetti più timidi e spesso meno in forze, tendono ad andar via di pedina, più facilmente sfuggono al cacciatore, ma più facilmente finiscono in bocca al predatore.

Il rischio è quindi quello di una sostituzione delle popolazioni selvatiche con quelle di allevamento che però sappiamo bene che hanno una ridotta capacità di sopravvivenza e riproduzione.

Quindi per soddisfare le richieste del mondo venatorio si deve sempre più fare ricorso alle immissioni con il rischio di rendere la caccia sempre più “artificiale” e malvista dall’opinione pubblica perché percepita come una attività non ecologicamente sostenibile.

L’esempio della Francia

Come viene affrontato questo problema in altri paesi? Prendiamo la Francia che presenta alcune analogie con l’Italia (la caccia è un fenomeno fondamentalmente popolare). Qui si va sempre più diffondendo il “Plan De Chasse” (Piano di Caccia) soprattutto sulle specie più “sensibili” come starna e pernice rossa.

Significa che il cacciatore, sulla base di conteggi faunistici, ha un suo piano nominale di capi abbattibili durante la stagione venatoria. Ad ogni capo abbattuto viene apposta una fascetta come si fa da noi per gli ungulati. Questo tipo di organizzazione si basa più su un controllo del prelievo che sul divieto di caccia su superfici estese. Certamente richiede un buon livello organizzativo ed una buona autodisciplina.

Laddove non sia possibile un livello organizzativo di questo tipo viene comunque adottato un “Plan de Gestion Cinegetique”, ossia un modello di gestione che non prevede un piano di caccia individuale, ma comunque delle norme tese a preservare il capitate naturale.

Ad esempio per il fagiano spesso si limita la caccia al maschio in modo da mantenere delle femmine selvatiche sul territorio in grado di riprodursi. Per la lepre, di norma, dopo la seconda settimana di caccia, viene fatta una valutazione del successo riproduttivo attraverso la palpazione della zampa anteriore (il cosiddetto tubercolo di Stroh). Se il rapporto giovani adulti è inferiore al 40% la stagione viene chiusa anticipatamente, se è fra il 40 ed il 60% viene fatta una valutazione dal comitato locale, se superiore al 60% viene confermata la chiusura alla data già stabilita (di norma la prima domenica di dicembre).

Non esistono Zone di Ripopolamento e Cattura, ma solo delle riserve di dimensioni contenute per mantenere aree a riproduzione naturale e senza disturbo venatorio. Alcune iniziative che vanno in questa direzione sono già state adottate, seppure in modo embrionale, anche nel nostro paese, soprattutto nel nord Italia.

Modelli gestionali troppo limitanti?

I modelli gestionali di questo tipo sono diffusi anche nei paesi dell’Europa dell’est. Spesso si pensa che tali modelli siano troppo limitanti o punitivi per i cacciatori, ma nella realtà per la maggioranza di loro non comporta alcuna vera rinuncia. Il problema è costituito da quella minoranza di cacciatori (non più del 20%) che attua sistematicamente un super-prelievo che va a scapito di tutti gli altri e che rischia di rendere insostenibile, nel lungo periodo, la caccia alla piccola selvaggina.

Ho il ricordo personale di un viaggio di istruzione in un’area di gestione della Francia meridionale dove avevano adottato da poco un Plan De Chassse alla pernice rossa (era il 2002): il responsabile dell’area riferì che il carniere dei cacciatori era rimasto all’incirca lo stesso, ma si erano limitati i comportamenti scorretti solo di una parte di loro.

Un altro vantaggio di questi sistemi è che si basano su una organizzazione territoriale a piccola scala che, oltre a determinare una maggiore coesione e responsabilizzazione fra i cacciatori, facilita il rapporto con il mondo agricolo, sia per quanto riguarda il miglioramento ambientale che la prevenzione dei danni da fauna selvatica. In molti comuni francesi ci sono iniziative per la salvaguardia dei margini campestri, per la valorizzazione degli spazi non coltivati e la salvaguardia dei nidi e delle nidiate in cui i partner principali sono le federazioni dipartimentali dei cacciatori. Tutto ciò giova anche all’immagine del mondo venatorio.

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